Vittima Dell’affetto

Vittima Dell’affetto

“Come s’indossa un abito nuovo dopo aver dismesso quello usato, così l’anima si riveste di un nuovo corpo dopo aver lasciato quello vecchio e ormai inutile.” Bhagavad-gita 2.22

Nel primo secolo avanti Cristo, il poeta romano Ovidio compose dei versi in cui è descritta la sorte di una persona sfortunata che retrocede di qualche gradino sulla scala evolutiva a causa delle sue azioni e dei suoi desideri degradanti.

“Mi vergogno a dirlo, ma lo dirò: sul mio corpo crebbero le setole.

Non potevo parlare, la mia bocca emetteva grugniti, non parole. Sentivo la bocca indurirsi… Avevo un muso al posto del naso e la faccia curvata a guardar la terra. Il mio collo s’ingrossò di pingue cotenna e zampe divennero quelle braccia e mani con cui poc’anzi avevo preso la tazza.”

Le Metamorfosi

Lo Srimad-Bhagavatam, composto circa tremila anni prima che Ovidio nascesse, riporta la storia straordinaria che andiamo a presentarvi, nella quale i princìpi della reincarnazione vengono svelati in tutta la loro concretezza. Il re Bhàrata, grande e virtuoso imperatore dell’India, prima di riprendere una forma umana dovette vivere nel corpo di un cervo a causa del suo profondo attaccamento per un cerbiatto.

Bhàrata era un re saggio che avrebbe potuto governare per centinaia di anni, ma ancora nel pieno vigore decise di ritirarsi nella foresta rinunciando alla sua regina, alla sua famiglia e a un vasto impero. Seguì dunque il consiglio dei grandi saggi dell’India antica, che raccomandano di dedicare l’ultima parte della vita all’autorealizzazione.

Il re sapeva che il suo incarico, per quanto grande e prestigioso, non sarebbe durato in eterno, quindi non cercò di restare sul trono fino alla morte. Anche il corpo di un sovrano diventa polvere, cenere o cibo per vermi e altri animali, ma all’interno del corpo c’è l’anima imperitura, il vero sé, che può essere risvegliato alla sua vera identità col metodo dello yoga. Quando ciò accade, l’anima non deve più trascorrere altro tempo imprigionata in un corpo materiale.

Sapendo che il vero scopo della vita è liberarsi dal ciclo della reincarnazione, il re Bhàrata viaggiò fino a un luogo di pellegrinaggio chiamato Pulaha-ashram, tra le colline ai piedi dell’Himalaya. Là visse da solo nella foresta, sulle rive del fiume Gandaki. Lasciato l’abito regale, indossava una pelle di daino, e poiché s’immergeva nel fiume tre volte al giorno, aveva la barba e i capelli, cresciuti in lunghe ciocche arruffate, sempre umidi.

Adorava ogni mattina il Supremo cantando gli inni del Rig- veda, e al sorgere del sole recitava il seguente mantra: “Il Signore è situato nella virtù pura e illumina l’universo intero. Grazie alle Sue energie mantiene tutti gli esseri che aspirano al godimento materiale e accorda ogni benedizione ai Suoi devoti.”

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A giorno inoltrato coglieva frutti e radici di vario tipo, e come ingiungono le Scritture vediche offriva questi semplici alimenti a Dio prima di cibarsene. Benché fosse stato un grande re e avesse vissuto nell’opulenza, con la forza delle sue austerità si purificò da tutti i desideri materiali liberandosi così dalla causa stessa dell’incatenamento al ciclo di nascite e morti.

Meditando costantemente sulla Persona Suprema, Maharaj Bhàrata iniziò a sperimentare i sintomi dell’estasi spirituale. Il suo cuore era simile a un lago colmo d’amore estatico, e quando la sua mente vi si bagnava, egli versava lacrime di gioia.

Un giorno, mentre meditava presso la riva del fiume, una cerva si avvicinò per bere. Proprio allora un leone ruggì nella foresta vicina. La cerva era gravida, e mentre fuggiva via terrorizzata perse il cerbiatto che portava in grembo. Il cucciolo cadde nel fiume e la madre, tremante per la paura e indebolita dall’evento prematuro, si rifugiò in una grotta, dove ben presto morì.

Nel vedere il cerbiatto trascinato dalla corrente, Bhàrata provò una grande compassione e lo estrasse dall’acqua. Sapendolo senza madre, lo portò con sé al proprio ashram. Da saggio spiritualista qual era, considerava le differenze fisiche del tutto insignificanti e percepiva la presenza dell’anima e dell’Anima Suprema nel corpo di tutte le creature. Iniziò dunque a nutrire regolarmente il cucciolo con l’erba fresca, e cercò di accudirlo al meglio. Questo fece maturare in lui un forte attaccamento, ed egli si ritrovò a dormire, a passeggiare, a mangiare e a farsi il bagno nel fiume insieme al cerbiatto.

Quando entrava nella foresta per cogliere frutti, fiori e radici, lo portava con sé, temendo che se l’avesse lasciato solo, sarebbe stato preda di cani, sciacalli o tigri.

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A Bhàrata piaceva moltissimo vedere il cerbiatto che saltellava allegramente nella foresta come un bambino. A volte se lo portava sulle spalle, e aveva il cuore così pieno d’amore per lui che lo teneva in braccio quasi tutto il giorno. Poi, quando dormiva lasciava che il cucciolo riposasse sul suo petto. Lo accarezzava spesso e a volte addirittura lo baciava. Nel suo cuore crebbe così il nodo dell’affetto per quella piccola creatura.

Dedito com’era alle cure del cervo, Bhàrata smise gradualmente di meditare sul Signore Supremo allontanandosi così dal sentiero della realizzazione spirituale, che costituisce il vero scopo della vita umana.

Nel ricordarci che l’anima ottiene la forma umana solo dopo milioni di vite nelle specie inferiori, i Veda paragonano il mondo materiale a un oceano di nascite e morti, il corpo umano a un solido vascello progettato per attraversare quest’oceano, le Scritture vediche e i santi precettori (i maestri spirituali) a navigatori esperti, e i vantaggi della forma umana a venti favorevoli che spingono senza difficoltà il vascello verso la destinazione finale.

Se nonostante tutti questi privilegi una persona non utilizza la propria vita per conseguire l’autorealizzazione, commette un suicidio spirituale e rischia di rinascere in un corpo animale. Sebbene Bhàrata conoscesse tutte queste verità, pensò tra sé: “Come posso trascurare questo cerbiatto che ha preso rifugio in me? Anche se disturba la mia vita spirituale non posso ignorarlo, perché disinteressarmi di una creatura indifesa che si è affidata a me sarebbe un grave errore.”

Un giorno, mentre meditava, invece di fissare la mente sul Supremo, Bhàrata iniziò come sempre a pensare al cerbiatto. Interrompendo la propria concentrazione si guardò intorno per vedere dove fosse, e non trovandolo si agitò come un avaro che ha perso i suoi soldi. Si alzò e cercò il piccolo dappertutto, ma l’animale sembrava svanito nel nulla.

Si chiese allora: “Quando tornerà? Sfuggirà alle tigri e alle altre belve? Quando lo vedrò di nuovo gironzolare nel mio giardino e brucare l’erba tenera?”

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Al calar della sera il cerbiatto non si vedeva ancora e Bhàrata fu sopraffatto dall’ansia: “Sarà stato divorato da un lupo o da un cane, oppure aggredito da un branco di cinghiali selvaggi 0 da una tigre solitaria? Il sole sta tramontando e il povero animale che si era rifugiato in me dopo la morte di sua madre non è ancora tornato.”

Ricordò come il cervo giocava con lui, sfiorandolo con la punta delle corna appena formate, e come a volte egli lo respingeva, fingendosi disturbato nella propria meditazione. Allora la bestiola si spaventava e subito si accucciava immobile poco distante.

“Il mio cervo è un piccolo principe. Quando tornerà? Quando placherà il mio cuore ferito?”

Incapace di frenarsi, Bhàrata partì alla ricerca del cerbiatto seguendo le sue minuscole orme illuminate dal chiaro di luna, e si ritrovò a parlare da solo: “Questa creatura mi è talmente cara che mi sembra di aver perso un figlio. La febbre della separazione da lui scotta come una foresta in fiamme, e il mio cuore brucia di dolore.”

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Mentre cercava come un pazzo tra i sentieri pericolosi della foresta, all’improvviso cadde e si ferì mortalmente. Disteso agonizzante, vide apparire il suo cerbiatto, che gli si accoccolò vicino vegliando su di lui come un figlio affettuoso. Al momento della morte i pensieri del re erano dunque totalmente concentrati sul cervo, e la Bhagavad-gita insegna: “Lo stato di coscienza di cui si conserva il ricordo all’istante di lasciare il corpo determina la condizione di esistenza futura.”

Nella vita successiva Bhàrata Maharaj si reincarnò in un cervo. La maggior parte di noi non è in grado di ricordare le proprie vite passate, ma grazie al progresso spirituale compiuto nella sua esistenza precedente, il re, pur trovandosi nel corpo di un cervo, poté comprendere la causa della sua nascita in quel corpo e iniziò a lamentarsi così:

“Che stupido sono stato a deviare dal sentiero della realizzazione spirituale! Avevo rinunciato alla famiglia e al regno, ed ero andato nella foresta per meditare in un luogo santo e solitario, dove contemplavo costantemente il Signore dell’universo, ma sono stato talmente sciocco da consentire alla mia mente di affezionarsi a un cerbiatto. È davvero il colmo! E adesso che mi ritrovo giustamente nel corpo di un cervo, posso solo incolpare me stesso.”

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Avendo appreso una grande lezione, Bhàrata riuscì a progredire spiritualmente anche nel corpo di un cervo. Si distaccò da ogni desiderio materiale, non sentì più alcuna attrazione per i deliziosi germogli verdi, né si curò mai di quanto ramificate crescessero le sue corna. Rinunciò alla compagnia dei suoi simili, maschi o femmine che fossero, e lasciò sua madre tra le montagne Kalanjara, dov’era nato.

Ritornò a Pulaha-ashram, lo stesso luogo in cui aveva praticato la meditazione nella vita precedente, ma questa volta fu molto attento a non dimenticare mai Dio, la Persona Suprema. Visse sempre vicino agli eremi dei grandi saggi e delle persone sante, evitò ogni contatto coi materialisti e condusse un’esistenza semplice, nutrendosi solo di foglie secche.

Quando giunse il momento della morte, prima di lasciare il corpo di cervo, Bhàrata pronunciò la seguente preghiera: “Dio, la Persona Sovrana, è la fonte di tutta la conoscenza, è Colui che dirige l’intera creazione ed è l’Anima Suprema nel cuore di ogni essere. È attraente e bellissimo, ed io lascio il corpo offrendoGli i miei omaggi, nella speranza di potermi dedicare eternamente al Suo trascendentale servizio d’amore.”

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In seguito, il re Bhàrata rinacque nella famiglia di un puro e santo brahmano, fu conosciuto col nome di Jad Bharàt e per la grazia del Signore ebbe di nuovo la facoltà di ricordare le vite passate. Krishna dice infatti nella Bhagavad-gita: “Da Me vengono il ricordo, la conoscenza e l’oblìo.”

Crescendo, il ragazzo cominciò ad aver paura di amici e parenti, perché li vedeva immersi nel materialismo e completamente disinteressati al progresso spirituale. Viveva in un’ansia costante, temendo che il loro influsso lo avrebbe fatto nascere di nuovo tra le specie animali. Sebbene dotato di grande intelligenza, si comportava quindi come un demente.

Fingeva di essere ottuso e sordo affinché i materialisti non gli rivolgessero la parola, ma dentro di sé pensava sempre al Signore e cantava le Sue glorie, le sole capaci di salvare le anime dal ciclo ripetuto di nascita e morte.

Suo padre era pieno d’amore per lui e nutriva nel cuore la speranza che un giorno il figlio sarebbe diventato un grande erudito. Provò dunque a insegnargli le complessità del sapere vedico, ma poiché il ragazzo si comportava come uno sciocco, dovette abbandonare ogni tentativo d’istruirlo. Jad Bharàt faceva esattamente il contrario di ciò che gli veniva chiesto, ma il padre, finché visse, volle comunque guidarlo.

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I nove fratellastri lo consideravano uno stupido senza cervello e abbandonarono ogni tentativo di educarlo quando il padre morì. Non potevano comprendere il suo avanzamento spirituale, e dal canto suo il giovane non si lagnava mai dei loro maltrattamenti, in quanto era del tutto libero dalla concezione corporea dell’esistenza. 4Accettava qualunque cibo, poco o molto, mangiabile o immangiabile. Essendo situato in una coscienza perfettamente trascendentale, non subiva le dualità materiali.

Aveva il fisico forte come quello di un toro e le membra molto muscolose. Non si curava del freddo invernale, del caldo estivo, della pioggia 0 del vento. Poiché il suo corpo era sempre sudicio, la sua conoscenza spirituale e il suo splendore erano coperti proprio come una gemma nel fango. Le persone ordinarie lo insultavano e lo ignoravano sistematicamente, ritenendolo un buono a nulla, mentre i fratellastri lo obbligavano a lavorare nei campi come uno schiavo in cambio di un po’ di cibo guasto.

Jad Bharàt non era capace di eseguire in modo soddisfacente nemmeno i compiti più semplici, come spargere il concime e livellare il terreno. Il suo nutrimento consisteva di riso spezzato, bucce di riso, rimasugli vari, cereali smangiucchiati dai vermi 0 cereali bruciati e rimasti attaccati sul fondo delle pentole. Lui accettava tutto questo con gioia, come se fosse nettare, e non provava mai alcun risentimento. Manifestava così i sintomi di un’anima realizzata.

Un giorno, il capo di una banda di ladri e assassini si recò al tempio della dea Bhadrakali per offrirle in sacrificio un essere umano scelto tra coloro che sono così privi d’intelligenza da sembrare animali. Questo tipo di sacrificio, che non è menzionato in alcuna parte dei Veda, era solo un piano criminale finalizzato all’arricchimento di quei furfanti, ma rischiò di fallire perché la vittima se la diede a gambe.

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Il capo della banda lanciò quindi all’inseguimento del fuggitivo i suoi scagnozzi, che perlustrando campi e foreste nel buio della notte giunsero nei pressi di una risaia, dove scorsero su una collinetta Jad Bharàt seduto, che faceva la guardia al campo, proteggendolo dall’attacco dei cinghiali selvatici. Pensarono allora che sarebbe stato una vittima perfetta. Felici, lo legarono con delle corde robuste e lo portarono al tempio della dea Kalì.

Jad Bharàt aveva una fede assoluta nella protezione del Signore Supremo, quindi non oppose alcuna resistenza. A tal proposito, un canto composto da un celebre maestro spirituale recita così: “Signore, ora mi abbandono a Te. Sono il Tuo eterno servitore e puoi uccidermi o proteggermi, come vuoi Tu. In ogni caso, sono pienamente arreso a Te.”

I briganti lo lavarono, lo vestirono con abiti di seta nuovi, lo agghindarono con ghirlande e ornamenti, gli offrirono un sontuoso ultimo pasto e lo condussero davanti a Kalì, che adorarono con canti e preghiere. Lo costrinsero poi a sedersi davanti alla dea. Uno di loro, che aveva assunto la posizione dell’officiante, estrasse una spada affilata come un rasoio e si apprestò a sgozzarlo per offrire a Kalì il suo sangue ancora caldo come bevanda.

La dea, però, non potè tollerare ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi, e avendo compreso che quei briganti erano pronti a uccidere un grande devoto del Signore, squarciò all’improvviso la sua forma di divinità e apparve con un corpo dal fulgore intenso e accecante. Infuriata, lanciò bagliori dagli occhi e scoprì i denti feroci e ricurvi.

Aveva le orbite fiammeggianti e sembrò sul punto di devastare il cosmo intero. Balzò rabbiosamente dall’altare e decapitò all’istante tutti i banditi usando la stessa spada con cui essi volevano uccidere il santo Jad Bharàt. Salvato da Bhadrakali, questi riprese a vagabondare tenendosi lontano dai materialisti.

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Un giorno, il re Rahugana viaggiava per il distretto di Sauvira su un palanchino portato a spalla da numerosi servitori. A un certo punto gli uomini, affaticati, iniziarono a barcollare, e realizzando che avevano bisogno di un altro portatore per attraversare il fiume, si misero alla ricerca di qualcuno.

Ben presto scorsero Jad Bharàt, e data la sua corporatura robusta e forte come quella di un bue, lo ritennero adatto allo scopo. Il giovane, però, considerava tutti gli esseri come suoi fratelli, quindi non fu di alcun aiuto nell’impresa, perché mentre camminava si fermava a ogni passo per assicurarsi di non calpestare neanche una formica.

Secondo le sottili ma precise leggi della reincarnazione, ogni creatura deve vivere in un certo corpo per un determinato arco di tempo prima di progredire verso una forma più elevata. Quando un animale viene ucciso prematuramente, l’anima deve tornare nella stessa specie per completare il periodo di cattività in quel tipo di corpo, perciò i Veda ingiungono di evitare l’uccisione arbitraria di qualsiasi essere vivente.

Ignorando la causa del ritardo, il re Rahugana gridò: “Ma che succede! Non siete capaci di portare questo palanchino come si deve?”

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Nel sentire il tono minaccioso del re, i servitori, spaventati, replicarono che il ritardo era dovuto a Jad Bharàt. Allora il sovrano riprese aspramente il giovane, accusandolo con sarcasmo di portare il palanchino come farebbe un vecchio malandato. Jad Bharàt, tuttavia, conoscendo la propria vera identità spirituale sapeva di non essere il corpo.

Non era né grasso né magro, perché non aveva niente in comune con l’aggregato di carne e ossa di cui era fatto il suo involucro materiale. Sapeva di essere un’anima eterna, situata aH’interno del corpo come l’autista di una vettura.

Non fu dunque minimamente toccato dalle aspre critiche del re. Anche se questi lo avesse condannato a morte, nulla avrebbe turbato la sua pace, perché egli sapeva che l’anima è eterna e non può mai essere uccisa. (Krishna insegna infatti nella Bhagavad-gita: “L’anima non perisce col corpo.”)

Rimase dunque in silenzio e continuò a portare il palanchino esattamente come prima. Il re, incapace di dominare la collera, urlò: “Furfante! Che stai facendo?! Dimentichi che sono il tuo padrone? La tua insubordinazione verrà punita all’istante!”

“O re,” disse Jad Bharàt, “tutto ciò che hai detto su di me è vero. Pensi che sono incapace di portare il tuo palanchino ed è la verità, perché in effetti non lo sto portando affatto. È il mio corpo che lo porta, e io non sono il corpo. Mi accusi di non essere robusto e forte, ma così facendo dimostri la tua ignoranza dell’anima spirituale.

Il fisico può essere grasso o magro, debole 0 forte, ma nessuno che possieda la conoscenza direbbe cose simili sul sé interiore. Per quanto riguarda la mia anima, non è né grassa né magra, quindi hai ragione quando dici che non sono molto forte.”

Jad Bharàt continuò a istruire il re: “Credi di essere il signore e il padrone, quindi cerchi di dominarmi, ma questo comportamento è sbagliato, perché tali posizioni sono effimere. Oggi sei il re e io il tuo servitore, ma nella prossima vita i nostri ruoli potrebbero capovolgersi: tu potresti essere il mio servitore e io il tuo padrone.”

Proprio come le onde dell’oceano fanno convergere i fuscelli di paglia per poi separarli di nuovo, così la forza del tempo eterno unisce gli esseri viventi in legami transitori (come quello tra padrone e servitore), per poi separarli e creare nuove situazioni.

“In ogni caso,” proseguì Jad Bharàt, “chi è il padrone e chi il servitore? Tutti sono costretti ad agire secondo le leggi della natura materiale, perciò nessuno è padrone e nessuno è servitore.”

I Veda spiegano che in questo mondo le persone sono come attori su un palcoscenico e recitano sotto le direttive di un superiore. In scena, un attore può interpretare il ruolo del padrone e un altro quello di servitore, ma la realtà è che entrambi sono subordinati al regista. Analogamente, tutti gli esseri sono servitori di Krishna, il Signore Supremo. Le loro posizioni di padroni e servitori nel mondo materiale sono illusorie e temporanee.

Dopo aver spiegato al re Rahugana ogni cosa, Jad Bharàt disse: “Se ti senti ancora il padrone e mi credi il tuo servitore, accetterò i tuoi ordini. Dimmi, che cosa posso fare per te?”

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Maharaj Rahugana, che aveva studiato la scienza spirituale, si stupì nell’ascoltare gli insegnamenti del giovane, e riconoscendo in lui una personalità elevata, scese subito dal palanchino. L’idea illusoria di essere un potente monarca era svanita, ed egli si prosternò umilmente ai piedi di quel santo in segno di rispetto.

“O grande anima, perché ti muovi nel mondo ignorato da tutti? Chi sei? Dove risiedi? Perché sei venuto qui? O maestro, sono cieco alla verità, quindi per favore dimmi come posso progredire nella vita spirituale.”

L’attitudine del re Rahugana è esemplare. I Veda dichiarano che tutti, anche i re, devono avvicinare un maestro spirituale per conoscere l’anima e il processo della reincarnazione.

Jad Bharàt rispose: “Poiché si ha la mente piena di desideri materiali, si assumono quaggiù vari corpi, e si sperimentano la gioia e il dolore insiti nell’azione mondana.”

Durante il sonno notturno la mente crea situazioni oniriche piacevoli e dolorose. Un uomo può sognare di godere di una bella donna o di essere inseguito da una tigre, ma il piacere e l’angoscia che sente sono fittizi. In modo analogo, le gioie e i dolori materiali sono solo creazioni della mente, basati sull’identificazione col corpo e con i beni terreni.

Quando ci risvegliamo alla nostra coscienza eterna, realizziamo di non aver nulla a che fare con tutto questo, e tale risveglio ha luogo solo se c’immergiamo nella meditazione sul Signore. Chi non riesce a fissare la mente sul Signore e a servirLo resta incastrato nella ruota di nascite e morti appena descritta.

“La condizione della mente determina la nascita in vari corpi,” continuò Jad Bharàt, “e questi corpi possono appartenere a molte specie diverse. Chi usa la mente per comprendere la scienza spirituale ottiene un corpo di natura superiore, chi invece la sfrutta solo per ottenere il piacere materiale riceve un corpo di natura inferiore.”

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Jad Bharàt paragonò la mente alla fiamma di una lampada: “Se il fuoco brucia male lo stoppino, il vetro della lampada si copre di fuliggine, ma se la lampada è piena di burro chiarificato e lo stoppino brucia bene, il risultato sarà una luce intensa. Una mente assorta nel materialismo provoca sofferenze interminabili vita dopo vita, ma se usata per coltivare la conoscenza trascendentale, rifletterà lo splendore originale dello spirito.

“Finché ci s’identifica col corpo di materia si è costretti a vagare in un numero illimitato di universi in differenti specie di vita. La mente incontrollata è dunque il peggior nemico dell’essere vivente.”

“Mio caro re, finché l’anima condizionata si rivestirà di un corpo materiale e non sarà libera dall’impurità del godimento illusorio, e finché non controllerà la mente e i sensi risvegliando la sua conoscenza spirituale ed elevandosi al piano dell’autorealizzazione, sarà costretta a vagare in luoghi diversi e in forme diverse nell’ambito transitorio di questo mondo.”

Il saggio svelò poi a Rahugana le proprie esperienze precedenti: “In una vita passata ero il re Bhàrata e ottenni la perfezione distaccandomi da ogni attività materiale. Ero pienamente assorto nel servizio del Signore, ma a un certo punto allentai il controllo della mente e mi affezionai a un piccolo cervo fino a tralasciare i miei doveri spirituali. All’istante della morte non potei quindi far altro che pensare a lui, e nella vita successiva dovetti assumere il corpo di un cervo.”

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Jad Bharàt concluse i suoi insegnamenti informando il re che chiunque desideri essere liberato dal ciclo della reincarnazione deve cercare la compagnia dei puri devoti del Signore. Infatti, solo frequentando i devoti elevati si può raggiungere la perfezione della conoscenza e neutralizzare il desiderio di avere legami materiali.

Senza la compagnia dei devoti del Signore non si riesce a comprendere nulla della vita spirituale. La Verità Assoluta Si rivela solo a chi ha ricevuto la misericordia di un grande devoto, perché in un’assemblea di puri devoti non si discutono argomenti mondani come la politica e la sociologia, ma si glorificano sempre e solo le qualità, le forme e i passatempi di Dio, la Persona Suprema, adorato con grande attenzione.

Questo è il semplice segreto grazie a cui possiamo risvegliare la nostra coscienza spirituale addormentata, fermare una volta per tutte il circolo vizioso della reincarnazione e tornare alla nostra vita di piacere eterno nel mondo spirituale.

Dopo aver ricevuto istruzioni dal grande devoto Jad Bharàt, il re Rahugana maturò una consapevolezza perfetta della posizione ontologica dell’anima e abbandonò il concetto corporeo della vita, che incatena le anime al ciclo interminabile di nascite e morti in questo mondo.

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